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"Comprendere il malato nel suo vissuto e partecipare alla sua vita è importante quanto eseguire bene la terapia"

2019-05-24

Padre Esterino Zandonà, come è nata la sua vocazione religiosa?
In famiglia. I miei genitori erano profondamente cristiani, mia mamma mi parlava spesso della bellezza del sacerdozio anche per indurmi a questa scelta. Mi presentava gli aspetti più allettanti per un ragazzo di 10-12 anni: mi diceva che in seminario avrei avuto tanti amici e avrei trovato tanti giochi. Voleva invogliarmi in questo modo. E poi avevo un mio cugino che era padre camilliano: veniva in vacanza con noi con quella bella croce rossa sul petto e la sua veste, così bella, mi affascinava. Così a 11 anni sono entrato nel seminario di Villa Visconti di Besana, oggi trasformata in casa di riposo e qui ho iniziato la mia formazione che è poi proseguita a Martirolo e a Verona, con gli studi di teologia e di filosofia. Proprio a Verona sono stato ordinato prete, nella cappella dell’Ospedale, il 22 giugno 1969: e sono passati cinquant’anni… 

In quali luoghi ha svolto la sua missione?
I miei cinquant’anni di vita sacerdotale li ho vissuti tutti in ospedale, come cappellano, come assistente spirituale. Innanzitutto, a Borgo Roma, (Verona) dal 1969 fino al 1977, poi a Lodi dal 1977 al 1983, poi ancora a Pavia, al Policlinico San Matteo, dal 1983 al 1998, quindi  al San Paolo di Milano, in zona Barona, dal 1998 al 2007, e infine a San Pio X, sempre a Milano, dove mi trovo tuttora. In queste strutture ho sempre svolto la mia attività di prete con grande soddisfazione. Ringrazio il Signore per il dono della vocazione sacerdotale e camilliana in particolare. E sono contento di aver svolto la mia attività sempre con i malati. Anche Gesù, nella sua vita apostolica, ha dato tanta importanza ai malati: basti pensare che un terzo del Vangelo presenta Gesù accanto ai malati.

Qual è, oggi, l’importanza del prete in ospedale?
La considero assai preziosa. Il malato non è solo una realtà biologica, ma anche spirituale. E in questa prospettiva si inserisce la figura del cappellano accanto al malato. Un buon cappellano deve prepararsi non solo a livello teologico, ma anche nelle discipline umane:  deve essere capace di dialogo, di ascolto, deve sapere incoraggiare, infondere fiducia, dare speranza. Quando fa queste cose, evangelizza. Comprendere il malato nel suo vissuto e partecipare alla sua avventura è importante quanto eseguire bene la terapia. Perché non si può curare bene il malato senza tener conto del suo mondo interiore.

Quindi serve creare un rapporto tra il medico e il cappellano?
Sì, certo. Il prete e il medico non devono ignorarsi reciprocamente: sono al servizio della stessa persona malata. La persona può ammalarsi per molteplici ragioni, per conflitti interiori, per insuccessi nella vita, per un vuoto esistenziale, e in questi casi le pillole servono a ben poco. Serve una parola affettiva che sappia infondere fiducia e speranza. 

Come si deve porre il prete nei confronti del malato?
Il cappellano non deve avvicinare il malato solo per amministrare sacramenti, ma deve tendere al bene del malato. Va sempre invitato a lottare e ad avere fiducia. L’opera del cappellano viene vista come la persona che dà le estreme unzioni, invece deve perseguire a fare il bene e a farlo bene. 

Qual è invece il suo rapporto con il personale sanitario?
Per tanti anni sono stato insegnante di etica sanitaria. una scuola di formazione per il personale infermieristico e questo impegno mi è stato molto utile perché mi ha permesso di conoscere il personale con cui ho avuto poi a che fare in reparto. Ho sempre cercato di conservare un buon rapporto con il personale sanitario, la cui professione è molto importante e preziosa perché permette di incontrare l’uomo in un momento particolarmente delicato: è il momento della malattia, spesso accompagnata da paura, ansia, preoccupazione. Negli incontri di formazione ho sempre richiamato l’importanza del calore umano, della sensibilità: una pastiglia buttata ai malati non è come una pastiglia offerta in maniera gentile. 

Che cosa suggerisce oggi agli operatori sanitari?
In questi 50 anni ho assistito a notevoli cambiamenti, ai progressi in campo tecnico-scientifico, all’arrivo di macchine diagnostiche curative sempre più d’avanguardia. Però c’è il rischio che queste macchine allontanino l’operatore sanitario dal malato, provocando così un senso di profonda solitudine. Non può esistere un’assistenza arida, fredda, senza un parola incoraggiante, senza un sorriso, senza un saluto. Il malato ha bisogno di calore umano. Forse il termine vocazione va evitato, ma certamente, in chi abbraccia questa professione, deve esserci una predisposizione nel prestare assistenza al malato in ogni sua dimensione.

Quanto è attuale l’insegnamento di San Camillo?
L’attenzione al malato, l’ascolto empatico, la vicinanza affettiva, risulterebbero molto più facili da mettere in pratica se l’operatore sanitario tenesse presente che il malato che sta di fronte è immagine di Dio, anzi è Cristo stesso, come dice il vangelo. “Ero ammalato e mi avete assistito. Qualunque cosa avete fatto al più piccolo dei miei ammalati lo avete fatto a me”. Queste parole evangeliche erano ben presenti in San Camillo e le ricordava spesso ai suoi collaboratori. Ancora oggi devono essere ben presenti in tutti noi.

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